Intervista a Stefano Scrima (Diogene Magazine, 3/3/2016)
a cura di Serena Lietti
In che modo hai affrontato il pensiero di Gide, Sartre e Camus?
Nell’unico modo con cui si possono affrontare tre giganti della storia della letteratura: leggendo i loro libri, lasciandomi suggestionare, cercando punti di contatto tra le parole stampate e il mio vivo annaspare. Tutti noi leggiamo autori ai quali ci sentiamo affini e, quando queste sintonie diventano inesorabili patti d’amicizia, bisogna scrivere, far sapere al mondo che esistiamo, e esistiamo in quel particolare modo – irreparabile.
Ho ascoltato più che altro le mie simpatie, non quelle di critici o studiosi. Ho tenuto conto delle vite di questi autori al di fuori di inchiostro e leggende, ma senza cedere alla tentazione del confronto spietato imposto da chi ha ben poca fantasia e spazio nel cuore. Come fare a dire “meglio Sartre di Camus” o viceversa? Come quelli che dicono “Beatles o Rolling Stones?” Ma perché? Amo entrambi. E per motivi diversi.
Da dove nascono le riflessioni di questi tre pensatori e qual è l’elemento che li accomuna?
Dalla vita quotidiana, come qualsiasi altra cosa. Dalla vertigine che provoca il respirare quando la coscienza prende il sole in faccia, e non ci sono ombre per ripararsi. Di certo gli sconquassi del Novecento non hanno aiutato a rasserenare tre coscienze di per sé vocate all’inquietudine.
Sono tre scrittori onesti, è questo che li accomuna – oltre, ovviamente, a uno spiccato interesse per l’assurdità di quest’esistenza balorda. Il fatto stesso di trasformare le proprie angosce in opere basta a sancire la loro onestà, che non è per forza – come qualcuno crede – l’esser sempre rigorosamente coerenti con ciò che si scrive, ma regalare se stessi al lettore, svelare l’elegante tremare di fronte a sé e al proprio domandare.
Una cosa che ho capito soltanto ora, dopo diversi anni che mi occupo di questi autori – invero è stato un pensiero di Vargas Llosa ad illuminarmi, e così mi contraddico con quanto detto sopra, ma poco importa –, è che mancano totalmente di ironia. Sono tremendamente seri, degli eroi tragici.
Esistenza: che fisionomia ha in questi pensatori?
Un pugno in un occhio. Esistere, per loro, non è quello che comunemente intendiamo con questo verbo, non è “essere in vita”, ma è un atto cosciente di sé, è “esistere!”, o “esistere forte” (titolo della prima edizione di questo libro – che tuttora prediligo). Una celebre frase di Oscar Wilde recita: “Vivere è la cosa più rara del mondo: i più, esistono solamente”, sostenendo in tal modo che per esistere non ci vuole niente, ma per vivere bisogna impegnarsi. Ecco, secondo me nemmeno “vivere” basta a descrivere quello che compiono Gide, Sartre e Camus attraverso le loro esistenze e le loro opere: loro “esistono forte”, mettono in questione quest’esistenza, la spingono al limite, le tolgono la pelle per guardarle muscoli, vene e ossa.
Gide ci mostra un Lafcadio che butta giù dal treno un tizio che gli stava semplicemente antipatico, lo fa perché gli va, e per far dire all’autore del romanzo: “Compiere un atto gratuito? Perché no? Chi ce lo vieta?”; Camus, con il suo Meursault, fa più o meno lo stesso, anche se questa volta ad uccidere l’arabo sulla spiaggia sembra aver contribuito anche un sole accecante e il calore dell’estate algerina; Sartre mette in scena un Roquentin nauseato dai suoi giorni e alla ricerca di un senso che possa riscattarli. Tre vicende che mettono il lettore di fronte all’esistenza nella sua nudità, non avvolta da teorie frutto di cultura e paura.
Libertà: privilegio o condanna?
Condanna tremenda. Essere liberi significa non poter fuggire dalla responsabilità che ogni azione comporta. Ma anche privilegio – esclusivamente umano. Appunto perché libere, le nostre azioni possono esser giudicate buone o cattive. La responsabilità permette l’attribuzione di merito e onta. Nessuno può nascondersi. L’essere umano è artefice di se stesso e del mondo proprio perché è condannato a essere libero (nella visione di Sartre e Camus perché non esiste un Dio che ci manovra dall’alto come burattini). E come dice Sartre, ogni nostra scelta – e non possiamo non scegliere poiché la non scelta è essa stessa una scelta – condiziona l’umanità intera; per questo dobbiamo calibrare ogni atto se vogliamo render autentico il nostro esistere, se non vogliamo chiudere gli occhi di fronte all’importanza che ognuno di noi ha per questo mondo.
Qual è la contemporaneità che possiamo riscontrare nelle riflessioni di questi pensatori?
Be’ esistiamo, no? E mi pare che nessuno abbia ancora svelato il mistero dell’esistenza. Anche se qualcuno – uno a caso: il caro Direttore di Diogene Magazine – pensa che piano piano, a forza di scavare, l’uomo riuscirà a bere dalla sorgente della verità, io non sono affatto d’accordo, penso non scopriremo mai un bel niente. È per questo, però, che servono autori come Gide, Sartre e Camus, che ci spronano a riflettere sul problema fondamentale dell’esistenza, dicendoci: “vi siete accorti che nessuno può sapere davvero il motivo per cui esistiamo, anche se ci vengono quotidianamente propinate teorie una più stramba dell’altra?”. Una volta che l’uomo capisce di essere libero – soprattutto libero dagli schemi culturali nei quali è cresciuto (penso ad esempio alla religione) – diventa davvero padrone del proprio essere e del proprio destino.
Questi autori hanno molto da dire all’uomo contemporaneo, anch’esso smarrito, forse anche più di loro, seppur dondolante in una falsa tranquillità sepolto da suv e grattacieli.
Oltre l’analisi del pensiero di Gide, Sartre e Camus, quali altri spunti può trovare il lettore nel volume?
L’analisi del pensiero dei tre autori in realtà è funzionale all’analisi di alcuni temi essenziali per la vita di tutti noi: esistenza, senso, libertà, responsabilità. Il libro è questo: un tentativo di farsi largo in una visione coscia della nostra esistenza, problematizzata.
Inoltre, per compiere tutto ciò non mi avvalgo solamente dell’aiuto dei tre moschettieri Gide, Sartre e Camus, ma anche di Nietzsche, Caraco e perfino di Paolo Sorrentino, i miei altri compagni di viaggio.
Un ulteriore spunto che emerge in questo libro è il rapporto tra filosofia e letteratura: non è certo un caso che Sartre e Camus siano, oltre che filosofi, romanzieri, e che Gide nelle sue prime opere sia stato profondamente influenzato dalla lettura di Nietzsche.
Un’ultima domanda. Stefano, che cosa significa per te esistere?
È una fatica inutile. Proprio come inutile è lo sforzo di Sisifo per portare la sua roccia in cima alla rupe, per poi vederla immancabilmente rotolare giù. Tuttavia, come dicono ironicamente – e l’ironia è l’unica arma che può salvarci – Callois e Valéry: “Non ci sono sforzi inutili, Sisifo si faceva i muscoli”. Questo per dire che, tutto sommato, esistere vale la pena. Anche solo per quel momento inebriante in cui raggiungiamo la vetta, dimenticandoci della fatica, della morte, dell’insensatezza, di tutto quanto. Momenti di pura gioia, di poesia.
In una lettera alla fidanzata Italo Svevo scriveva: “La mia indifferenza per la vita sussiste sempre: anche quando godo della vita a te da canto, mi resta nell’anima qualche cosa che non gode con me e m’avverte: bada, non è tutto come a te sembra e tutto resta commedia perché calerà poi il sipario. Di più l’indifferenza per la vita è l’essenza stessa della mia vita intellettuale. In quanto è spirito e forza, la mia parola non è altro che ironia ed io ho paura che il giorno in cui a te riuscisse di farmi credere nella vita (è cosa impossibile) io mi ritroverei grandemente sminuito. Quasi, quasi, ti pregherei di lasciarmi stare così. Ho un grande timore che essendo felice diverrei stupido e, viceversa poi, son felice (quale compassione ti faccio) soltanto quando sento movermi nella grossa testa delle idee che credo non si movano in molte altre teste”.
La mia parola non è altro che ironia, perché niente ha senso, calerà poi il sipario. La felicità, la forza che mantiene in vita alcune persone persuase della fondamentale inutilità della vita (come me) è la consapevolezza di tutto questo, la capacità di sublimarla in parola ironica, la capacità di succhiare linfa dal dolore che è indifferenza dell’universo per le nostre misere pene quotidiane – con data di scadenza certa e definitiva.
Vale la pena esistere anche solo per poter dire che non ne vale la pena affatto. Ma se non esistessimo, come faremmo a dirlo?
PER L’INDICE DEL VOLUME CLICCA SULLA COPERTINA
PER INFO SUL VOLUME: CLICCA QUI
***
Intervista a Stefano Scrima (Diogene Magazine, 9/11/2015)
a cura di Serena Lietti
Raccontaci un po’ di te.
Da adolescente mi piaceva credermi discendente di Alessandro Magno, questo perché gli antenati di mio padre provengono dalle zone dell’antica Macedonia. Così, non potendo conquistare il mondo con le mani, mi impegnai a raccoglierlo nei pensieri, attività senza fine e piuttosto frustrante.
Mia madre, belga, mi trasmise invece l’amore per l’arte e il gioco; lei, ribelle cresciuta in un mondo asfittico col solo pensiero della fuga e come unico conforto i colori di una tavolozza e la trasgressione di polpastrelli sincopati su un pianoforte.
Ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza in provincia, a Cremona, città in cui nacqui per caso. Dopo il liceo mi trasferii a Bologna per studiare Filosofia. Presi la laurea triennale e poi la magistrale, trascorrendo lunghi periodi in Spagna, a Barcellona e a Madrid, città che contribuirono profondamente alla mia formazione. Vivo e lavoro a Roma, e ne sono felice, perché quando voglio posso andare a prendermi un cappuccino in Piazza Farnese e passare le domeniche mattine tra i libri di Porta Portese.
Scrivo – anzi trascrivo – me stesso. In musica, in filosofia, nell’arte della finzione. Non è un fine, bensì il mezzo con cui ricerco la mia ragion d’essere. Compiere me stesso, o divenire quello che sono, per citare un filosofo che conoscono tutti.
Come vivi, da trentenne, la crisi di questo secolo (lavorativa, culturale, sociale, politica)?
Male. Non c’è posto per me, lo avverto distintamente. Sono un essere superfluo perfino nell’inutilità di cui è costituita gran parte della nostra vita. Di velleità artistiche il mondo ne è sazio, anzi penso ne abbia il vomito. Eppure non posso essere altro.
La crisi è ovviamente culturale. Il lavoro manca, la politica è infingarda, la società grassa, perché vige la cultura del mercato, del sensazionale, dell’effimero. Quanti libri sono stati scritti su questo, non sono certo capace di spiegarlo. Perché il punto è: ma come siamo arrivati a questo? Si stava meglio prima? Probabilmente no. Se c’è una cosa che l’uomo sa far molto bene, oltre il male, è idealizzare. Di sicuro posso dirvi come vorrei che fosse il mio mondo, quello sì – ma ci troveremmo ancora nell’ideale.
Ognuno deve trovare il proprio modo di affrontare e superare la crisi che è insita nel suo essere uomo o donna. Una volta capito il nostro limite possiamo far risorgere – o forse meglio far nascere – una società di uomini consci, perché solo nella consapevolezza può esserci amore e responsabilità.
Per Diogene Multimedia hai appena pubblicato Non voglio morire. Miguel de Unamuno e l’immortalità. Unamuno fu pensatore tormentato dall’insanabile dualità tra sentimento e ragione, in che modo guardò alla vita e alla morte? E, nello specifico, in che termini non si rassegnò alla caducità dell’esistenza?
Unamuno è un personaggio speciale, la sua ribellione all’insensatezza della morte è una poesia commovente. Un inno alla vita come il suo non esiste altrove. Quello che lo distingue da tutti, e che lo accomuna invece a figure come Cristo e Don Chisciotte, è il coraggio del ridicolo. Non ha paura di gridare contro gli schemi impostigli dalla società e nemmeno contro la natura madre e assassina, anche a costo di essere deriso da un universo che ha altro per la testa. Noi non sappiamo proprio niente di quest’esistenza, mentre troppo spesso ci arroghiamo il diritto di decidere anche per gli altri cosa sia giusto o sbagliato in base a nostre arbitrarie convinzioni. Unamuno lo sa e non si dà pace: ma chi si credono di essere questi uomini despoti dal fiato corto? Che ne sapete voi della mia anima, quando non conoscete nemmeno la vostra.
Ma soprattutto perché dobbiamo morire? Ma allora perché siamo nati? Unamuno non vuol morire; ma che senso ha tutto questo se poi sarà spazzato via da uno sternuto divino o dal gelo dell’inverno? Vivere con questa lotta nella testa è vivere il doppio, con l’intensità del mistico che però conosce bene come sono fatti i suoi piedi.
Guardando il tuo percorso emerge una particolare vicinanza al pensiero esistenzialista. Partendo da questo, quale ritieni che sia la condizione dell’essere umano su questa terra? Quali le possibilità – se esistono – di vivere, se non felicemente, quantomeno senza troppi tormenti? E a quali filosofi (o scrittori) possiamo attingere ancora oggi per riflettere su questi temi?
L’uomo è un saltimbanco con un pessimo equilibrio. È sempre in affanno per cose che razionalmente sa benissimo essere inutili. E trascura invece, questa volta per un senso del dovere (errato, perché pur sempre arbitrario) incancrenito, l’inutilità gioiosa che può redimerlo per il tempo di un bagliore dall’orrore in cui è immerso. Lui stesso è un orrore, sia chiaro. La bellezza che sta nel fondo delle cose può purificarlo, può perlomeno dargli il coraggio di essere un’opera d’arte.
Leggete le poesie di Enzensberger, troverete tutto quello che vi serve. E cosa serve? L’ironia, il gioco, il piacere del conoscere, scoprire le pieghe nascoste del tempo. E poi l’amore, la passione, la complicità. Cosa serve di più? Però bisogna viverle! Non pensarle. La poesia in questo può aiutarci molto più della filosofia. Uno sguardo tinto di poesia è possibile, ed è vero, vivo nella carne del momento.
Sartre dice che siamo noi, scelta dopo scelta – non scegliere non è possibile perché è anch’essa una scelta –, a costruirci, a volerci come siamo. Non può che essere così, siamo noi che decidiamo chi essere nell’incontro-scontro con l’esterno, tutto quello che non siamo noi. Giorno dopo giorno formiamo il nostro essere nel modo in cui affrontiamo le sfide che ci si presentano davanti. È una lotta, perché solo lottando ci si può avvicinare all’ideale che ognuno ha di sé. Bisogna lottare per vivere, per poter vivere. Ma come dice Camus: “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”, ed è questo che significa vivere: avere il cuore pieno. Anche Unamuno lo sottoscriverebbe, ma con la promessa che non si smetta mai di lottare, per non rischiare poi di sentirsi vuoto il petto.
Che valore attribuisci alla filosofia per l’uomo e per la società?
È l’occasione a far l’uomo saggio ed è la filosofia l’occasione della saggezza; i libri sono l’occasione per pensare, riflettere sul senso dei nostri gesti e delle nostre opinioni. Certo, per ragionare bisogna averne voglia, è un requisito essenziale, e non mi pare sia mai stato molto diffuso tra gli uomini, nonostante gli sforzi di Prometeo.
La filosofia oggi è sinonimo di accademia, di saggi noiosi per specialisti, di “persone strane”, ma solo perché non si può dire che la filosofia è in realtà il telaio delle nostre esistenze. Vivere è filosofare. Decidere è filosofare, soppesare pro e contro attraverso il ragionamento. Come si può pesare un mondo senza filosofia? Non è possibile.
Eppure, pur non avendo molta simpatia per loro, gli specialisti servono, eccome. Rappresentano l’inutile che ci manca, la possibilità inesauribile dell’uomo di colmarsi di senso. E poi sono gli unici “parlatori di filosofia” riconosciuti ufficialmente dalla società (alcuni di loro percepiscono addirittura uno stipendio). Potrebbe andare peggio, come succede in altre parti del mondo.
Bisogna però fare una precisazione: il fine della filosofia è capire, perlomeno provarci, non adeguare il ragionamento alle proprie convinzioni. Chi fa questo tradisce se stesso e non sta filosofando, e di sicuro sta vivendo male.
Prossima tua pubblicazione, sempre per Diogene Multimedia, sarà Esistere! Gide, Sartre e Camus. Quali sono i temi affrontati nel volume e cosa potrà trovarvi l’uomo del XXI secolo?
Nichilismo. Il mondo, evidentemente, difetta di significati ultimi, non riesco a fingere il contrario. Gide, Sartre e Camus se ne rendono conto in un momento storico in cui questa precarietà di senso cambiò il volto del mondo, lasciando nelle bocche degli uomini, oltre a un nuovo sapore di libertà, un profondo smarrimento.
Nichilismo attivo, potremmo dire. Il mondo non ha senso, tu non hai senso, ma puoi dar forma a questo senso mancante attraverso il tuo agire e i valori che tu stesso scegli di seguire. Ciò non significa farsi oltreuomo e accettare la vertigine dell’eterno ritorno, ma più semplicemente sentirsi parte di qualcosa, di un progetto di esistenza che riempia di significato anche il dolore connaturato al nostro camminare sulla terra.
Questi tre autori, in modi diversi, sperimentano su se stessi un antidoto alla catastrofe del nulla, mostrandoci modi possibili di affrontare l’angoscia che l’uomo contemporaneo non può non aver provato almeno una volta nella vita.